Quello che è sorprendente quando si affronta la lettura di un libro di Emanuele Coccia è che non ha bisogno di convincerci. Non ha bisogno di argomentazioni elaborate, di apparati di note e referenze altisonanti, di oscuri ragionamenti o di compiaciute erudizioni. Coccia non ha bisogno di convincerci, semplicemente perché siamo già convinti. Quello che descrive, in qualche modo lo sapevamo già, eppure non ci avevamo mai pensato (o non l’avevamo mai pensato in quel modo).

La lettura allora produce una sensazione, inebriante e liberatoria, di scoprire un’evidenza. E allo stesso tempo, ci obbliga a riflettere sul fatto che se un’evidenza non appare più evidente, vuole dire che qualcosa ci impedisce di vederla, di riconoscerla.

Ed è precisamente questa sensazione, inebriante e liberatoria, che ha accompagnato la mia lettura di La filosofia della casa, appena uscito da Einaudi. Un libro che attendevo con impazienza, non solo per la curiosità di scoprire l’opera più recente di un collega e amico geniale, con cui ho la fortuna di condividere numerose discussioni e un seminario all’Ecole d’Hautes Etudes en Sciences Sociales a Parigi, ma soprattutto per cercarvi degli indizi, delle indicazioni per ripensare l’oggetto dei miei studi attuali – il design. Di conseguenza, la lettura che ne darò qui sarà non solo parziale e soggettiva (come tutte le letture) ma orientata a una questione precisa: come ci aiuta il libro di Emanuele Coccia a ripensare il design oggi?

Per prima cosa, bisogna sottolineare che il volume si inserisce in una sequenza con altri testi precedenti, in cui il riferimento al design (e ai campi limitrofi ma storicamente distinti dell’arte e dell’architettura) appare dapprima puntualmente poi in modo sempre più nitido. Allo stesso tempo, il libro introduce degli elementi nuovi. Prima di tutto, stilistici. Scritto in italiano (mentre le opere che lo precedono, come il celebrato La vita delle piante (2016) e Metamorphoses (2020), non ancora tradotto in italiano, sono stati redatte in francese, lingua del paese in cui l’autore risiede), il libro presenta una scrittura diversa, più intimistica e narrativa, più esplicitamente soggettiva. Gli spunti biografici che aprono ogni capitolo – gli innumerevoli traslochi, i giochi con il fratello gemello e poi con la figlia, le esperienze domestiche – non sono aneddoti introdotti per rendere più comunicabile un pensiero astratto, o episodi che compongono una storia personale che, una volta raccontata, vuole imporsi come esemplare.

Malgrado la loro apparente disparità, questi piccoli racconti descrivono tutti l’attimo in cui il pensiero affiora, non in una presa di distanza dall’orizzonte del quotidiano, ma al contrario, solo ed esclusivamente al suo interno. I diversi episodi mostrano come la filosofia si riveli non tanto come pratica di conoscenza quanto come processo di riconoscenza: allo stesso tempo di riconoscimento – perché improvvisamente qualcosa, nell’orizzonte degli oggetti comuni, nella trama dei gesti quotidiani, si staglia netto, appare come un’evidenza, aprendo la via al pensiero – e di riconoscenza, nel senso di gratitudine – perché riconoscere un’evidenza produce sempre uno scarto, induce una trasformazione, permette di ritornare sugli oggetti comuni, sui gesti quotidiani, con uno sguardo diverso, che è anche colmo di gratitudine. Riconoscimento – e quindi filosofia – come stato di grazia. A questo proposito, mi viene in mente il termine classico di agnizione.

Utilizzato da Aristotele nella sua Poetica, questo termine indica l’inaspettato riconoscimento (o auto-riconoscimento) di un personaggio, che si ritrova trasformato – un processo che provoca una svolta nella vicenda di una dramma o di una narrazione, ma anche e soprattutto lo svelamento di una delle enigmatiche pieghe del mito. Animata da un anelito cosmico, quella di Coccia mi sembra precisamente una filosofia che, più che verso la cognizione, spinge verso l’agnizione – un processo che non è solo cognitivo, ma anche, e allo stesso tempo, identitario ed estetico.

Ma veniamo al design. La prima sorpresa (o evidenza) che affronta il lettore è nella definizione di casa, con cui comincia il libro. Coccia ci dice che la casa non è una questione di spazio, e quindi di architettura o di design, ma “è una realtà puramente morale” (p. 6).

Questo termine può sorprendere. Già nel Il bene nelle cose (2014), l’autore aveva introdotto la dimensione morale per spiegare la funzione delle pubblicità nello spazio urbano, che, attraverso le immagini idealizzate di oggetti, prodotti e merci, declinano i codici della felicità a cui l’uomo moderno è indotto a aspirare. Perché per Coccia, la morale si definisce precisamente come la “teoria della felicità” (p. 7). E, potremmo aggiungere, con un gesto di semplificazione radicale: se la morale è la teoria della felicità, la casa ne è la pratica. Tuttavia, anche se questa semplificazione non è in sé errata, tradisce in qualche modo la dimensione di continuità, di fluidità, d’interdipendenza, che Coccia non smette di ribadire, tra dimensioni spirituali e fisiche, tra pensiero e materia: la dinamica della metamorfosi supera le dicotomie, senza scioglierle, ma al contrario legandole.

Ho sempre pensato che il design avesse una dimensione essenzialmente morale

In questa prospettiva, la casa, se non è più uno spazio, potrebbe essere definita come una funzione. Fare casa: appropriarsi di uno spazio, un tempo, porre dei confini all’interno dei quali radicare e poi estendere il proprio io. È quello che indicano con la nozione di territorio, Gilles Deleuze e Felix Guattari, in Mille Plateaux (1980): un processo non solo di appropriazione effettiva ma soprattutto di “contaminazione affettiva” . Ma Coccia, al termine funzione, che ha il limite di reintrodurre malgrado tutto un orientamento teleologico se non una meccanica produttivista, preferisce la nozione di morale. Fare casa significa cercare la felicità, costruire il proprio benessere, operare per il proprio bene un processo di “addomesticazione del mondo” (p.17), disponendo spazi e oggetti intorno a noi, circondandoci di cose. Una tensione che non è una prerogativa dell’uomo, ma di tutti gli esseri viventi. Fare casa significa sviluppare delle procedure di “adeguazione tra sé e il pianeta”, per produrre “una piega cosmica che fa coincidere per un attimo psiche e materia, anima e mondo” (p. 16).

Ora, molti filosofi e critici questa attività trasformativa l’hanno chiamata tecnica, altri design.

E infatti, leggendo l’inizio del libro, sono stato a più riprese tentato di sovrapporre le due nozioni, la casa e il design. In fondo, ho sempre pensato che il design, più che essere tecnica, o piuttosto, proprio perché è tecnica, avesse una dimensione essenzialmente morale.

Prendiamo la celebre definizione dell’economista premio Nobel Herbert Simon: “design è ogni strategia volta a cambiare la situazione esistente in una migliore” (« everyone designs who devises courses of actions aimed at changing exisiting situations into preferred ones ») . L’interpretazione che viene sempre data di questa formula – per esempio da coloro che vi fissano i fondamenti del design thinking – è quella di definire il design come una pratica di problem solving, volta a migliorare l’ambiente dell’uomo, secondo i principi progressivi dell’innovazione.

Certo, la prospettiva positivista di Simon giustifica questa interpretazione, eppure, a ben guardare, il termine “migliore” non indica solo la trasformazione di una condizione fisica ma un’evoluzione morale. O meglio, indica come qualsiasi trasformazione delle condizioni fisiche implica un progresso che è sempre inevitabilmente morale: operare per il meglio, per il bene dell’uomo, si fonda su una gerarchia di valori, per cui una situazione ideale (“migliore”) svaluta e corregge una condizione reale. Questa dimensione morale è imprescindibile nel design, è connaturata alla sua definizione (del resto, in certi frangenti, come nel caso paradossale e radicale delle tendenze critiche del design, può persino diventare moralismo, nel senso nobile del termine). In breve, non c’è design senza una tensione verso il miglioramento (ideale) di una condizione (reale). Allora in effetti, a partire da questa pulsione morale, design e casa si sovrappongono, come “pratiche della felicità, che permettono di vivere meglio di quanto la natura consentirebbe”. Nel suo libro, Coccia lo ripete in modo perentorio: non c’è felicità senza casa, né senza cose. E, si potrebbe aggiungere, senza design.

Ma quella che traccia Coccia è una fenomenologia della casa e delle cose che smentisce i luoghi comuni. Le cose non sono mai puri strumenti o oggetti inerti, ma elementi complessi, in cui dimensioni funzionali, simboliche e affettive si condensano in un prisma iridescente. Sono elementi dotati di forze, che risuscitano l’animismo, bandito dalla tradizione della filosofia occidentale e, negli ultimi anni, recuperato dall’antropologia. Le cose non sono superfici di proiezione dell’inconscio, individuale o collettivo, o non solo. Sono soprattutto dei catalizzatori che intensificano le nostre esperienze e la nostra identità. In questo senso la loro funzione è, appunto, di fare casa.

Di conseguenza, essi non rispondono semplicemente alla logica funzionale, aiutandoci a eseguire compiti o azioni, o a una logica simbolica o sociale, orientando comportamenti o definendo valori e statuti, ma definiscono il nostro orizzonte morale: sono gli elementi con cui componiamo la nostra felicità. E, Coccia insiste su questo punto fondamentale, questa dimensione non è un monopolio dell’essere umano – in quanto tutti gli esseri viventi sono legati da una stessa vita che essi condividono. In questa prospettiva, il design va separato dall’idea dell’eccezione umana e dal principio umanista e lineare del progresso (o del regresso), per essere rimesso in circolo nella dinamica della metamorfosi cosmica. Il design va quindi ripensato in una prospettiva non-antropocentrica, evitando allo stesso tempo la deriva colpevolista e misantropa. Perché invece, come spiega, con una delle sue folgoranti formulazioni, Coccia, riconoscere la dinamica della metamorfosi significa “inebriarsi di tutte le cose” (p. 70).

Il design va separato dall’idea dell’eccezione umana e dal principio umanista e lineare del progresso

Il libro riserva altri punti importanti, che fanno da corollario a questo mutamento di prospettiva, o riconoscimento. Rimettere la casa al centro del pensare e del vivere, produce una serie di altri riconoscimenti a catena: da una parte segna la fine della città, come progetto della modernità che lega la possibilità della felicità allo spazio sociale e politico, e dall’altra quella della natura, come mito di un’alterità incondizionata. Allo stesso tempo, non si tratta di cedere alla tentazione di un fatalismo olistico, in cui tutto scorre, tutto si sovrappone, in un flusso fondamentalmente statico e indifferente. Al contrario, la casa produce differenza, scava una separazione con l’esterno, urbano o naturale, induce un’alterazione della superficie del mondo, con lo scopo di consegnare uno spazio-tempo all’alterità:

“Ogni casa è un antro che appoggia su piante metri quadri e minuti che non gli apparterranno mai. Presuppone l’apertura di un buco di incoerenza con quanto la circonda e che rompe ogni flusso e ogni ecosistema (…). Ogni casa è un’operazione di chirurgia cosmica che produce sacche di extraterritorialità su scala planetaria. Una casa è un vulcano che erutta spazio-tempo alternativo sul pianeta, realtà non terrestre. Spazio alieno”(p. 76.).

Per questa “dimensione antispaziale”, la casa “è pericolosa per la città, per la natura, per la Terra”: “è una forza antigeografica, una corrente di irrealismo geografico planetario”. Allo stesso tempo, come tutto sulla Terra, la casa è il luogo di una simbiosi, perché la materia con cui è fatta è la stessa del mondo, ogni casa si innesta su altre case, è attraversata dalla vita degli altri, umani e non umani.

Se da una parte, la riflessione di Coccia si inserisce nelle tendenze attuali della filosofia ecologica, che influenzano oggi in modo profondo la ridefinizione del design dopo la crisi della modernità, dall’altra esprime una serie di distinguo, tutt’altro che trascurabili – e soprattutto, benvenuti in un dibattito spesso troppo superficiale e polarizzato.

Contro l’ottica pacificatrice e rassicurante di un’ecologia paternalista, Coccia rilegge la crisi dell’Antropocene in modo originale: non si tratta di liberare il pianeta dai giardini, fatti dall’uomo, per lasciare spazio a una mitologica natura arcadica e incontaminata, ma al contrario di rendere la terra giardino. Perché il giardino, operazione di design, è il modo in cui possiamo rendere la terra casa – un modo che non appartiene solo all’essere umano, ma a tutti i viventi.

Contro l’ottica pacificatrice e rassicurante di un’ecologia paternalista, Coccia rilegge la crisi dell’Antropocene in modo originale

Ecco che allora, contro certe pratiche regressive, contro certe strategie del ripiego, che alleano al progetto della decrescita un rifiuto pregiudiziale delle tecnologie, Coccia propone una posizione più realista. Per esempio, prendendo le difese del Bosco Verticale di Stefano Boeri che contaminano la città, nata come “monocultura umana” e come progetto di “desertificazione della terra” (p. 104), reintroducendo la biodiversità, “portando la foresta nella casa” (p. 105), il filosofo spiega che, in fondo, la foresta è un fatto tecnico – esattamente come un grattacielo. Attraverso quest’operazione di design, che rivoluziona lo spazio domestico, “la casa diventa un dispositivo di incastramento multispecifico: la casa di ogni specie è il corpo di un’altra” (p. 106).

Ed è questa la direzione da prendere, suggerisce Coccia in conclusione del suo libro, che meriterebbe di essere meditato e analizzato nei dettagli, talmente è ricco di spunti: nel momento in cui, le reti e i social media – come i lockdown recenti hanno dimostrato – hanno fatto esplodere le frontiere della casa, estendendole a livello planetario: “se la casa del passato è stata una macchina di distinzione, nel futuro dovrà diventare la disciplina collettiva della mescolanza” (p. 127): mescolanza delle classi, delle identità, delle culture, delle specie. E, di nuovo, possiamo sovrapporre alla casa il design – ed ecco, allora, delineato il futuro del design: diventare la disciplina collettiva della mescolanza.

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